RIASSUNTI PERVENUTI (13/04/2009; secondo l’ordine alfabetico degli autori)

 

 

 

 

L’etica come una capacità cognitiva: un inquadramento della dimensione evolutiva

 

Matteo Borri

 

Université de Genève - Suisse & Università di Bari – Italia; e-mail: Matteo.Borri@unige.ch, mborri@gmail.com

 

Le opere di Charles Darwin, e in particolare L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, hanno contribuito a strutturare una prospettiva di ricerca sulle facoltà psichiche incentrata sulla biologia. Un particolare significato fu assunto dalla ricezione della prospettiva darwiniana presso la “scuola” fiorentina sviluppatasi intorno a Paolo Mantegazza.

Dalla prospettiva biologica di fine Ottocento che assumeva il campo delle emozioni come un sistema di tipo innato e basato su una attività fisiologica di tipo istintuale si è passati oggi ad una prospettiva neuroscientifica. A partire dagli anni Cinquanta del Ventesimo secolo si sono sviluppati studi sui processi neuronali che mediano i processi comportamentali, studi basati anche su nuovi strumenti di indagine. L’attuale prospettiva delle neuroscienze cognitive, incentrata su un alto grado di integrazione di domini disciplinari (Kandell, 2007) offre contributi specifici per approfondire quanto proposto da Darwin. Il dibattito sulle condizioni biologiche abilitanti al pensiero etico pone alcuni quesiti di fondo. Il pensiero etico può essere trattato come un dominio cognitivo autoconsistente o s’interseca con domini diversi, come ad esempio con strutture di tipo emozionale? Quali sono le caratteristiche strutturali linguistiche che caratterizzano il pensiero etico? Ricerche di tipo evolutivo nel campo cognitivo linguistico mettono in luce un complesso rapporto tra un comune dominio e differenti abilità che ad esso afferiscono. Questa articolata complessità, indagata con metodi psicologici come il test 5VM (Boschi, 1986) trova un correlato concettuale nelle ipotesi strutturali e funzionali della teoria della selezione dei gruppi neuronali (Edelman, 1995).

La prospettiva evolutiva trova conferme nelle ricerche psicologiche in età evolutiva (Bigozzi, 2007). I risultati e le loro implicazioni sull’andamento evolutivo dell’attivazione consapevole del ragionamento critico-valutativo offrono un contributo alle attuali riflessioni sull’etica come competenza cognitiva e pongono le basi per ulteriori studi.

 

 

******************************************

 

 

Emozioni, evoluzione e la neuroetica della dipendenza

 

Stefano Canali

 

Scuola Internazionale di Studi Superiori Avanzati, Trieste - Italia; e-mail: canali@sissa.it

 

 

Le idee e i discorsi sulla tossicodipendenza sono dominati da due principali modelli concettuali: il modello medico, secondo cui le dipendenze sono malattie e il modello morale, il quale invece descrive queste condizioni come difetto della condotta, vizio, debolezza di volontà. Negli ultimi anni entrambi questi modelli concettuali si sono confrontati con gli intensi sviluppi della ricerca neuroscientifica e le nuove conoscenze sui meccanismi funzionali con cui il cervello si costruisce e si modella attraverso l’interazione con gli stimoli più diversi e le esperienze. Gli effetti benefici di questo confronto sulla comprensione e sull’intervento sulle dipendenze, sulla concettualizzazione delle loro implicazioni morali e giuridiche non hanno tuttavia corrisposto alle attese. La questione se la dipendenza sia compresa meglio come malattia o in quanto condizione morale resta aperta e conseguentemente rimane controverso il grado di responsabilità delle azioni di un soggetto dipendente. Una prospettiva emergente della neuroetica sta cercando di spiegare la dipendenza sulla base di alcune recenti evidenze sulla neurobiologia del controllo cognitivo del comportamento. Essa ipotizza che i soggetti dipendenti siano colpiti da una disfunzione nel controllo cognitivo del comportamento, soffrano cioè di una diminuzione del controllo cognitivo del comportamento volontario. Questa prospettiva sembra dare per certo che la dimensione cognitiva sia il piano in cui realizza il controllo della condotta in accordo alle norme culturali o agli obiettivi prefissati. In questo senso il comportamento funzionale dipenderebbe soprattutto da processi top down, dalla funzionalità delle vie “all’ingiù” che dalla corteccia prefrontale modulerebbero la tendenza all’azione codificata nei centri encefalici più profondi. Questo approccio, evidentemente mediato dall’indirizzo computazionale delle scienze cognitive e dalla neurofilosofia sembra sottovalutare le dimensioni affettive ed emotive delle dipendenze e trascurare i determinanti evoluzionistici, le motivazioni biologiche dell’uso, dell’abuso di sostanze e delle dipendenze. Va inoltre evidenziato il fatto che la dipendenza non può semplicemente essere intesa o come malattia del cervello o in quanto condizione morale. Questo è evidentemente un falso dilemma. Per una migliore comprensione del problema occorre guardare oltre la sfera delle funzioni cognitive e al di là del campo di studio delle neuroscienze cognitive. La dipendenza può essere intesa allo stesso tempo come patologia del cervello – una condizione biologica – e come fatto morale. Ciò è possibile usando una prospettiva evoluzionistica a partire dalle neuroscienze affettive. Le funzioni cognitive in quanto tali sono senza dubbio compromesse nel caso delle dipendenze ma più in generale i processi razionali e decisionali sembrano danneggiati come effetto dell’alterazione dei processi affettivi. Ciò peraltro sembra testimoniato dal fatto che l’astinenza o il completo recupero più che conseguenze della pura soluzione di problemi cognitivi o dell’azione delle funzioni razionali ed esecutive sembrano dipendere dal comporsi di conflitti emotivi ovvero dal ripristino della funzionalità dei meccanismi del cervello emozionale. le sostanze d’abuso si insinuerebbero e prenderebbero possesso dei meccanismi nervosi, soprattutto dopaminergici, del rinforzo e del piacere attraverso cui vengono incentivati gli obiettivi funzionali alla sopravvivenza dell’individuo e della specie, mangiare, bere, riprodursi, ecc., e quindi modellati i comportamenti adattativi appresi. Questi obiettivi biologici agiscono come ricompense, essi sono desiderati in quanto esperiti come piacevoli e quindi motivanti. Il sistema di ricompensa cerebrale è modellato dall’evoluzione. Questo sistema massimizza la capacità degli organismi viventi di ottenere ricompense. Ciò significa che tale sistema media la capacità di apprendere e di comparare efficacemente stimoli e ricompense attese. Allo stesso tempo il sistema di ricompensa cerebrale sembra mediare la capacità di apprendere schemi d’azione efficaci, risposte automatiche finalizzate all’ottenimento di ricompense. La corticalizzazione delle funzioni nervose ha moltiplicato la possibilità delle esperienze umane e le condizioni attraverso cui innescare e modulare i processi dopaminergici alla base del piacere. È per questo che nell’uomo le ricompense variano enormemente in complessità, immediatezza, nella forza motivazionale: dalla pure motivazione biologica come il cibo, a fini culturali appresi come una pietanza sofistica e ben presentata, la lettura di un buon libro o l’ascolto della musica favorita. In ogni caso, tuttavia, le emozioni, il piacere la risposta edonica a una ricompensa costituiscono i determinanti che danno forma al comportamento. Per queste ragioni un approccio neuroetico alla comprensione delle dipendenze non può fare a meno di una prospettiva evoluzionistica e delle neuroscienze affettive. Le neuroscienze affettive portano la nozione di processo affettivo nella spiegazione della perdita del controllo. I processi affettivi, comunque espressione di sottostanti determinismi neurobiologici, sono stati soggettivi, sentimenti negativi o positivi, rappresentazioni psichiche che codificano e riflettono obiettivi e valori dell’individuo come organismo e come essere sociale e dunque motivano le azioni e il comportamento. La connotazione affettiva che l’organismo dà agli stimoli interni o esterni è in sostanza una attribuzione di valori e contribuisce di conseguenza alla formazione dei processi decisionali, motiva le scelte. In questo modo d’altra parte le emozioni portano sulla scena la dimensione morale, che per sua natura non può essere ridotta a un complesso di processi puramente computazionali.

 

 

******************************************

 

 

Contributi dell’etologia alle prospettive emergenti in ambito etico e antropologico

 

Marco Celentano

 

Università di Cassino - Italia; e-mail: marcelen@unina.it

 

 

Il libro di Darwin L’espressione delle emozioni negli animali e nell’uomo (1872) è il primo saggio di argomento etologico basato sulla teoria della selezione naturale. Con esso, Darwin chiudeva, almeno idealmente, il cerchio della sua rivoluzione culturale, inquadrando come oggetto specifico di una indagine basata su presupposti genealogici (discendenza dell’uomo da specie animali), e sulla teoria della selezione naturale, l’ambito che la cultura tradizionale più tenacemente aveva difeso, e avrebbe a lungo continuato a difendere, da ogni intrusione naturalistica: la ricerca sulle origini, sulle motivazioni e sui significati dei comportamenti umani. In realtà, fin dalla prima diffusione della teoria darwiniana della selezione naturale (1859), e dalle prime opposizioni che essa suscitò, ciò che era in gioco, la posta intorno a cui infuriava la battaglia, consisteva precisamente nella possibilità di istruire una vasta indagine, di impostazione comparativa e genealogica, sull’origine e le trasformazioni storiche delle facoltà mentali e dei comportamenti umani, senza vincolarla al rispetto dogmatico di credenze radicate nella tradizione. Oggi, anche attraverso gli sviluppi dell’etologia comparata, dell’etologia cognitiva, dell’etologia culturale, dell’etologia umana, della sociologia animale e dell’ecologia comportamentale, questi aspetti cruciali della rivoluzione darwiniana stanno trovando maturazione. Tuttavia, gli esiti di questo grande mutamento di paradigma appaiono, almeno per quanto concerne i loro significati in ambito antropologico, sociale ed etico, ancora come una questione aperta. Tali sviluppi sembrano, infatti, attualmente, sospesi o divisi tra prospettive radicalmente innovative che, attraverso la ricerca comparata su filogenesi, ontogenesi e sociogenesi delle forme cognitive e comportamentali, e sulle menti e culture animali, mettono in discussione i presupposti tradizionali della partizione disciplinare tra scienze del vivente e scienze umane, ed esiti culturalmente regressivi che conducono ad un aggiornato, raffinato e perciò “più pericoloso Darwinismo Sociale” (Hirsch J. 1976) e a quella prospettiva “gene-centrica” (de Waal F. 1996, 2001) che caratterizza alcune correnti dell’etologia umana, della sociobiologia, della genetica del comportamento e della “psicologia evoluzionistica”. L’etologia comparata e l’etologia culturale hanno ormai ampiamente dimostrato l’inadeguatezza delle rappresentazioni tradizionali dello “specifico umano” e del suo alter ego, l’”animale”: l’immagine classica dell’”animale”, ameba, lombrico o scimpanzé che fosse, come mero contraltare dell’umano, elenco di tutto ciò che secondo la tradizione antropologica è presente in noi e mancante nelle altre creature. L’essere senza storia, senza pensiero, privo di conoscenze, cultura, linguaggio. Gli sviluppi degli studi sulle società, le culture e le “menti animali” mettono, oggi, radicalmente in crisi i presupposti e i confini antropologici tradizionali,  dimostrando l’insostenibilità dell’assunto, radicato da secoli nella nostra tradizione, secondo cui “storia”, conoscenza, pensiero e cultura sono prerogative esclusive dell’essere umano. Queste scoperte implicano, come è evidente, non un azzeramento dello “specifico umano” (ogni specie, sotto il profilo etologico, è unica), ma una sua ridefinizione. Nella prospettiva di un’ antropologia “evoluzionistica”, genealogica, o darwiniana, la primatologia, l’etologia umana, l’antropologia e l’archeologia molecolari contribuiscono, integrando e confrontando i loro approcci, metodi e risultati, allo sviluppo di uno studio comparato di tutte le specie, società e culture antropoidi, ominoidi e ominine esistite ed esistenti. L’antropologia filosofica appare, invece, almeno in Italia, in grave ritardo rispetto a questi sviluppi, legata ad una definizione tradizionale del suo ambito specifico (scienza dell’uomo”, nel senso stretto dell’umanità moderna) e a un’obsoleta idea dell’”animale” in generale come mera “istintività”. Una prospettiva antropologica che non riesca a collocare la storia e la psiche umane entro il quadro di una comparazione fra tutte le grandi società di “primati superiori” esistite (ove ne abbiamo traccia) ed esistenti, che non parta da una adeguata cognizione della complessità e varietà di prestazioni individuali di cui le specie antropoidi e ominoidi sono capaci, o che rimuova il fatto, ormai indiscutibile, che pensiero e cultura esistono anche al di fuori della nostra specie, continuerà ad alimentare quella mitologia dell’umano e quel separatismo ontologico da cui, più che mai, oggi, per ragioni teoriche e pratiche, abbiamo bisogno di distaccarci. Ma, se occorre ripensare e rivoluzionare l’antropologia filosofica, liberandola da antichi presupposti idealistici e antropocentrici, e i risultati della ricerca etologica possono aiutare a farlo, non meno necessaria appare, oggi, una rifondazione critica dell’etologia umana: un emanciparsi di questa disciplina dall’impostazione programmaticamente riduzionista e determinista che caratterizzò i suoi esordi, retaggio novecentesco di una interpretazione “conservatrice” del darwinismo che affondava le sue radici nella cultura di orientamento positivista e liberista del secondo Ottocento.

 

 

******************************************

 

 

La parabola metodologica di William D. Hamilton e la cattiva natura di Iago: storia, aspetti epistemologici e proposte critiche attorno alla malvagità

 

Emanuele Coco

 

Ecole des Hautes Etudes en Science Sociales, Paris - France & Università di Catania - Italia; e-mail: emanuele.coco@unict.it

 

 

Tra il 1963 e il 1964 William Donald Hamilton (1936-2000) pubblicava due articoli destinati a rivoluzionare il modo di pensare il comportamento sociale e le sue dipendenze dal patrimonio genetico. Nel secondo di questi articoli egli costruiva un modello matematico in grano di valutare i destini di un ipotetico gene che induca il soggetto a comportarsi altruisticamente. Pochi anni dopo, proprio partendo dai principi teorici esposti nell’articolo di Hamilton, Richard Dawkins scriverà il suo fortunato libro Il gene egoista (Dawkins, 1976) e parlerà di Hamilton, a seguito della prematura scomparsa avvenuta nel 2000, come “quanto di più vicino a Darwin il XXI secolo poteva offrirci” (Dawkins, 2000). La morte di Hamilton ha indotto alcuni colleghi e istituzioni ad allestire un archivio dei suoi documenti presso il Department of Manuscripts della British Library di Londra, ancora oggi in corso di catalogazione. I quattro cicli di lezioni inedite che ho ritrovato in archivio e redatte - secondo quanto da me stimato - tra il 1965 e il 1975, permettono oggi di riesaminare la parabola metodologica di Hamilton sotto il profilo storico ed epistemologico. Il cambio di prospettiva che egli adotta negli anni settanta (Hamilton, 1970, 1972, 1975) non riguarda la contrapposizione gruppi/individuo, come a volte si è scritto, ma la possibilità di avvalersi di uno strumento matematico più potente in grado di includere nei modelli affetti fino a quel momento per lui di difficile rappresentazione numerica. E’ grazie a questo nuovo strumento che egli affronta una questione carica di implicazioni teoriche: il possibile successo della “malvagità” tra organismi che sottostanno a selezione naturale. La storia delle teorie evoluzionistiche dedicate ai comportamenti sociali – e di recente pubblicate in un volume dal titolo Egoisti, malvagi e generosi (Coco, 2008)   permette di avanzare alcune ipotesi sull’altra faccia della medaglia del celebre dilemma che ha accompagnato l’altruismo fino ai giorni di Hamilton. Infatti, se il dilemma dell’altruismo è stato sciolto (risolvendo l’interrogativo come possono organismi altruisti che compromettono la propria resa riproduttiva per aiutare gli altri mantenersi stabili nel tempo?) un’altra questione resta aperta: come possono esistere individui malvagi?

 

 

******************************************

 

 

Dalle passioni dell'anima alle emozioni: il contesto storico e filosofico del The expression of emotions in animals and man” (1872)

 

Bernardino Fantini

 

Université de Genève – Suisse; e-mail : Bernardino.Fantini@unige.ch

 

 

Durante la preparazione del volume L’origine dell’uomo (pubblicato nel 1871), Charles Darwin aveva accumulato una grande quantità di materiali sulle emozioni e la loro espressione, che diverrà la base di un altro libro L’espressione delle emozioni negli animali e nell’uomo, pubblicato a sua volta nel 1872, con un grande successo immediato, tanto da vendere più di 5000 copie in poco tempo. Il punto di partenza del libro era che molte delle espressioni emozionali sono universali, in quanto « i giovani e gli anziani di razze molto differenti, sia nell’uomo che negli animali, esprimono lo stesso stato mentale con gli stessi movimenti ». Il libro era innovativo per il suo contenuto, ma anche per il metodo e la forma. Dal punto di vista teorico, le emozioni sono presentate come eventi che si producono spontaneamente nel soggetto che le prova (spesso in relazione con la coscienza) e che successivamente si manifestano esternalmente nel corpo (espressioni facciali, grida, gesti) o comunicate socialmente con altri mezzi. Di conseguenza, le emozioni sono considerate come determinate dall’evoluzione per selezione naturale e la loro espressione di natura fisiologica (teoria fisiologica-evolutiva delle emozioni). Riguardo al metodo e all’argomentazione, Darwin utilizza le risposte ad un questionario inviato nel 1867, centinaio di fotografie di attori, bambini, animali e malati mentali, e le proprie osservazioni sui suoi bambini e su sé stesso, con particolare attenzione all’empatia per il dolore causato dalla morte di un familiare. Infine, Darwin è uno dei primi ad utilizzare la fotografia come mezzo argomentativo e retorico. L’opera di Darwin sulle emozioni ha avuto un impatto significativo sull‘origine dell’etologia all’inizio del XX secolo, ma anche su due fra i più significativi studiosi della fine del XIX secolo, Sigmund Freud e William James. Freud era particolarmente attratto dall’idea darwiniana delle emozioni come tratti ereditari. Alla fine del XIX secolo, il testo che ha avuto più influenza è stato l’articolo di William James nella rivista Mind dal suggestivo titolo ‘ Cos’è un’emozione? ‘ (1884). Questo saggio fa esplicito riferimento alla teoria fisiologica-evolutiva proposta da Darwin. Il libro sulle emozioni ha avuto comunque un destino complesso ed è il meno amato e il meno diffuso dei libri di Darwin. Talvolta esso è stato considerato persino un libro « non darwiniano ». Gli esponenti più recenti della ‘rivoluzione emozionale’, che si sta sviluppando da alcuni decenni, fanno comunque esplicito riferimento alla teoria darwiniana delle emozioni. Questo contrasto storiografico e filosofico è al centro di questa conferenza.

 

 

******************************************

 

 

Dottrine della cooperazione

 

Antonello La Vergata

 

Università di Modena e Reggio Emilia – Italia; e-mail: alavergata@unimore.it

 

 

Dalla teoria darwiniana della selezione naturale furono tratte molte e diverse applicazioni alla morale e alla società: non soltanto a giustificazione dell’individualismo e della concorrenza, ma anche in difesa della cooperazione e dell’altruismo. L’origine dell’uomo conteneva un messaggio ambivalente: Darwin da una parte auspicava fra i membri della società una aperta concorrenza che avrebbe favorito il progresso mediante il successo dei più adatti, dall’altra riconosceva un ruolo importante alla “simpatia” e agli istinti sociali nell’evoluzione delle facoltà intellettuali e morali dell’uomo. Per spiegare la diffusione dei sentimenti altruistici, aveva introdotto una sorta di selezione di gruppo in aggiunta alla credenza “lamarckiana” nell’ereditarietà delle abitudini. Salvo poche eccezioni, le dottrine della cooperazione della seconda metà dell’Ottocento si basarono su principi lamarckiani e attribuirono un’importanza secondaria alla selezione naturale, o la respinsero del tutto. Ciò è particolarmente evidente in Francia e in Russia. In Francia, la solidarité divenne una specie di credo politico ufficiale della Terza Repubblica. La maggior parte dei pensatori e dei naturalisti russi detestavano Malthus e la componente malthusiana del darwinismo. Il più noto sostenitore del «mutuo soccorso» è Kropotkin. Lamarckiano, convinto dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti, affermò che le fondamenta della moralità umana stavano nella natura. Quello che avevano fatto di Darwin gli ideologi borghesi era «abominevole», scrisse. Ma anche la Germania si rivelò un terreno favorevole alle idee della cooperazione, probabilmente grazie alla forra del partito socialista. Karl kautsky, per esempio, divenne darwiniano prima di diventare marxista e propose una teoria etica fondata sugli istinti sociali che l’uomo aveva ereditato dagli animali. Per ironia della sorte, anche alcuni darwiniani favorirono la diffidenza nei confronti della selezione naturale, descrivendo la natura non umana come «uno spettacolo di gladiatori»: così T.H. Huxley nella sua famosa conferenza del 1893 su Evoluzione ed etica, in cui oppose il «processo etico» su cui si fonda la società umana al «processo cosmico», cioè l’evoluzione attraverso l’universale lotta per l’esistenza, che riempie la natura di crudeltà e sofferenza. Ma il bersaglio polemico di Huxley, Herbert Spencer, attaccato per la sua difesa di un «individualismo selvaggio» (parole di Huxley), obiettò a ragione: se non è il prodotto del processo cosmico, il processo etico di che cosa è il prodotto? Non dimentichiamo che Spencer, proprio lui che è generalmente presentato come il prototipo del darwinista sociale, prevedeva l’inevitabile riconciliazione di altruismo ed egoismo nell’ultimo stadio dell’evoluzione sociale. Naturalmente, Spencer era un convinto assertore di quella che definiva «ereditarietà degli effetti dell’uso [e del disuso]». Essendo lamarckiane in spirito, le dottrine della cooperazione si trovarono a mal partito con il neodarwinismo di Weismann. Sia Kropotkin sia Spencer attaccarono l’idea weismanniana dell’«onnipotenza della selezione naturale» in nome delle loro inclinazioni politiche, che erano ovviamente diverse l’una dall’altra. Anche molti sociologi rimasero costernati: che cosa ne era degli sforzi umani per il progresso se Weismann aveva ragione e ogni generazione doveva ricominciare daccapo? Se l’evoluzione sociale e culturale non si basava sugli stessi meccanismi dell’evoluzione biologica, la sociologia perdeva ogni carattere di scientificità. La diffidenza verso i concetti di lotta per l’esistenza e selezione naturale aumentò dopo la prima guerra mondiale, quando circolò, specialmente negli Stati uniti, l’accusa secondo cui il darwinismo in quanto tale era la causa della «follia darwiniana» che aveva scatenato il militarismo tedesco e condotto alla catastrofe. Molti biologi americani volsero le spalle alla lotta per l’esistenza e alla selezione naturale e guardarono a impostazioni organicistiche o olistiche. Fra le discipline tradizionali della storia naturale e la genetica si aprì un fossato che sarebbe stato difficile colmare e che fu ulteriormente allargato, da una parte, dal selezionismo estremo che caratterizzò la corrente principale dell’eugenetica e, dall’altra, dello sviluppo dell’antropologia culturale come disciplina autonoma. Questa la situazione fino alla fine della seconda guerra mondiale. Le ripercussioni sui rapporti fra la biologia evoluzionistica e le scienze umane sono state negative; ne hanno risentito, fino a tempi recenti, i tentativi di naturalizzare l’etica.

 

 

******************************************

 

 

Così lontani così vicini: il contributo Darwiniano alla moderna psicologia comparata

 

Simone Macrì, Francesca Zoratto, Igor Branchi e Enrico Alleva

 

Istituto Superiore di Sanità, Roma – Italia; e-mail: simone.macri@iss.it

 

 

La semplice lettura quotidiana della sezione “scienza” delle principali testate giornalistiche, nazionali e internazionali, mostra quanto la teoria dell’evoluzione e il suo autore, Charles Darwin, tuttora permeino lo sviluppo scientifico e il rapporto che esso ha con la società. Nello specifico, ogni nuova scoperta, in ambito di malattie psichiatriche, che preveda l’utilizzo di specie animali da laboratorio (roditori e scimmie in particolare), presuppone che queste ultime siano in grado di percepire e di esibire emozioni che, un tempo, erano ritenute prerogativa dell’uomo. L’assunto di partenza è che, così come specie diverse mantengono analogia e omologia funzionale per alcuni tratti morfologici, al tempo stesso, un elevato isomorfismo (descritto come somiglianza tra due o più specie diverse per un dato tratto) possa essere osservato anche in ambito emotivo. Questo semplice concetto costituisce la pietra miliare sulla quale la moderna psicologia comparata – qui intesa come lo studio di processi cognitivi ed emozionali confrontando specie diverse – è stata successivamente edificata. In particolare, sin dalla metà del secolo scorso, è stata condotta una lunga serie di esperimenti in cui è stato dimostrato come mammiferi (di laboratorio) appartenenti a specie diverse dalla nostra siano in grado di percepire emozioni come paura, ansia, tristezza, depressione e molte altre. Nel corso del nostro intervento descriveremo prima gli studi che hanno indirizzato lo sviluppo della moderna psicologia comparata e, successivamente, analizzeremo in dettaglio lo stato dell’arte nell’ambito dei modelli sperimentali di disturbi psichiatrici. In particolare, saranno brevemente discussi gli studi originali in grado di dimostrare l’esistenza di processi mentali semplici in specie a sviluppo neurologico ridotto. In seguito, in riferimento ai controversi studi condotti su macachi “depressi” – separati dalle madri durante le prime fasi dello sviluppo – saranno analizzati nel dettaglio sia la loro rilevanza, sia i loro limiti. In particolare, verrà evidenziato il contributo che questi studi hanno fornito in ambito di conoscenza dei meccanismi patogenetici della depressione. Inoltre, verrà analizzato il limite di questi studi, con specifico riguardo alle variabili indipendenti utilizzate per indurre il fenotipo depresso. In particolare, verrà discusso come questi studi, adottando una separazione completa dei piccoli dalle madri, trascurassero sia l’ambiente in cui i meccanismi patogenetici prendevano forma sia, soprattutto, l’ambiente in cui la patologia era esibita. In questo ambito, sarà quindi discussa l’importanza dell’ambiente sociale e fisico in cui una determinata patologia psichiatrica si sviluppa. Evidenzieremo come, nella nostra specie, la presenza di fattori biologici e contestuali (come la perdita del posto di lavoro, del coniuge o l’insorgenza di malattie) sia indissolubilmente collegata all’insorgenza e al decorso di patologie psichiatriche. Al tempo stesso, proporremo che lo sviluppo e il miglioramento di modelli animali di patologie psichiatriche non possa prescindere da questo aspetto. Così come fenomeni biologici complessi devono necessariamente essere inquadrati nell’ambito in cui si sviluppano, al tempo stesso, lo sviluppo di modelli animali non può prescindere dal contesto sociale e fisico. Infine, proporremo che l’approccio eco-etologico, che tiene in considerazione sia l’ambiente di sviluppo dell’individuo, sia il suo repertorio comportamentale specie-specifico, possa risultare molto promettente laddove lo sviluppo e il risultato dei processi patogenetici siano parte integrante dell’ambiente stesso.

 

 

******************************************

 

In che modo la selezione sociale nascosta modella la capacità umana verso l'altruismo

 

Randolph M. Nesse

 

University of Michigan, Ann Arbor, Michigan – U.S.A.; e-mail: nesse@unmich.edu

 

 

La scoperta del fatto che la selezione opera a livello dei geni ha portato a una crisi dell’identità morale degli uomini. Tale crisi persiste nonostante il riconoscimento dell’importanza della selezione di parentela, della reciprocità e degli effetti della reputazione fra individui. L’altruismo genuino sembra inesplicabile, se non come errore o come capacità imposta dalle organizzazioni sociali umane. Nonostante ciò, è facile osservare azioni altruistiche condotte senza probabilità di ricompensa, ed è anche più comune sperimentare un privato senso di colpa per le trasgressioni segrete. Le idee sviluppate da May Jane West-Eberhard verso la fine del 1970 rappresentano una soluzione possibile. Ella osservò che la selezione sociale nascosta può modellare tratti sociali estremi legati ai benefici dell’essere scelti come patner sociali (soci, confidenti o amici), così come tratti morfologici estremi possono essere modellati dalla selezione sessuale per i vantaggi legati all’essere scelti come patner. La selezione sociale nascosta può spiegare le emozioni che rendono possibili amore e amicizia. Inoltre, essa spiega in che modo possano essere selezionate la tendenza a preoccuparsi molto del parere degli altri e le capacità alla base dell’empatia. Gli individui che posseggono queste emozioni hanno relazioni migliori e più numerose e quindi incrementano la propria fitness. Come i tratti selezionati sessualmente, anche queste emozioni comportano costi importanti, in particolare legati all’ansia sociale e alla disistima. Le altre specie non ricavano benefici comparabili dalle relazioni a lungo termine con individui non imparentati, quindi non è sorprendente trovare che queste capacità sono probabili solo negli uomini. Esse, tuttavia, non sono affatto universali. La forte variabilità genetica e culturale è alla base del fatto che non esiste una singola natura umana, ma esistono ampie variazioni che richiedono spiegazioni. Queste variazioni offrono spiegazioni possibili delle condizioni patologiche come la psicopatia e la personalità ossessivo-compulsiva. Riconoscere l’origine delle capacità umane sociali dalla selezione sociale nascosta può aiutare a risolvere la crisi dell’identità morale umana, e può aiutarci a spiegare la prevalenza di certe condizioni patologiche.  

 

******************************************

 

 

L’evoluzione dell’altruismo: selezione a più livelli ed exaptation

 

Telmo Pievani

 

Università di Milano Bicocca

 

 Italia; e-mai: telmo.pievani@unimib.it

 

 

In alcuni articoli recenti (fra gli altri, D.S. Wilson, E.O. Wilson, 2007) si è avuta conferma che le due soluzioni classiche per l’apparente paradosso dell’evoluzione dell’altruismo e dei comportamenti pro-sociali in natura – la “selezione di parentela”, che lascia insoddisfatto ancora il problema della struttura popolazionale richiesta, e la “selezione di gruppo”, che presenta ancora debolezze esplicative significative – sono compatibili l’una con l’altra. Il risultato della loro integrazione è una possibile spiegazione dell’ambiguità tra la profonda attitudine alla cooperazione all’interno dei gruppi e la capacità di organizzare azioni ostili fra i gruppi (Bowles, 2008), che ritroviamo nella specie umana e non solo. Tuttavia, questi modelli sottovalutano l’effettivo ruolo di un’evoluzione “a più livelli” e restano fortemente vincolati a un’interpretazione delle dinamiche evoluzionistiche tutta centrata sulla selezione fra lignaggi di geni egoisti, perdendo potere esplicativo se applicati a specie che vivono in gruppo e che mostrano forme incondizionate di altruismo e di sentimenti pro-sociali all’interno di gruppi di individui non strettamente imparentati, a maggior ragione poi quando l’evoluzione culturale integra il processo. Al fine di evitare due opposte ipotesi evoluzionistiche che prevedono in ultima analisi una radicale “discontinuità culturale”, e seguendo invece un approccio continuista e pluralista suggerito già da Charles Darwin nelle note conclusive de L’origine dell’uomo, sottolineiamo qui il possibile ruolo che il meccanismo di “cooptazione funzionale” o “exaptation” (Gould, Vrba, 1982; Gould, 2002) – anticipato da Darwin nella sesta edizione dell’Origine delle specie nel 1872, lo stesso anno di uscita della prima edizione dell’Espressione delle emozioni – potrebbe avere per trovare una spiegazione più completa e soddisfacente dell’evoluzione dell’altruismo, libero o reciproco, in animali organizzati in gruppi e in specie dotate di cultura. 

 

 

******************************************

 

 

Il naturalismo deve essere nichilista?

 

Alexander Rosenberg 

 

Duke University, Durham, North Carolina - U.S.A.; e-mail: alexrose@duke.edu

  

Tenterò di dimostrare quanto sia difficile per una visione Darwiniana della moralità adottare una qualche prospettiva che non sia nichilista. Nichilista come distinta dal relativismo o scetticismo circa le norme morali. Esaminerò i diversi tentativi di evitare questa prospettiva e proporrò l’idea che questo carattere indesiderato possa essere mitigato da alcune scoperte importanti di Darwin e altri circa la natura dei vincoli morali umani.

 

 

******************************************

  


L’origine evolutiva della sincronizzazione multimodale nell’espressione emozionale


Klaus R. Scherrer

 

Université de Genève - Suisse; e-mail: klaus.scherrer@unige.ch

  

Innanzitutto, verranno descritte la natura e le funzioni delle emozioni, con particolare attenzione alla natura dinamica degli episodi emotivi e alla sincronizzazione dei canali di risposta nell’interesse dell’adattamento ottimale agli eventi più significativi. Questa caratteristica costitutiva delle emozioni sarà in seguito legata all’origine evolutiva delle espressioni emotive, dimostrando che rappresenta un aspetto essenziale degli scoppi emotivi spontanei nell’uomo e negli animali. Si riserverà uno spazio appropriato alle pionieristiche idee di Darwin sull’argomento. Infine, verrà esplorato il significato di questo meccanismo dell’espressione emotive nella comunicazione verbale e nella musica.  

 

 

******************************************

 

 

Le nozioni fondamentali della “selezione di gruppo”

 

Elliot Sober 

 

University of Wisconsin, Madison, Wisconsin - U.S.A.; e-mail: ersober@wisc.edu

 

Nell’Origine delle Specie, Darwin discusse dell’esistenza delle caste sterili negli insetti sociali e dei pungiglioni dentellati delle api come esempi di tratti evoluti per il fatto di essere benefici per il gruppo. Nel suo ultimo libro, La Discendenza dell’Uomo, disse la stessa cosa a proposito della moralità umana. Userò gli esempi di Darwin per chiarire il concetto di selezione di gruppo. Darwin non distinse chiaramente fra selezione di famiglia, di parentela e di gruppo, ma gli esempi che discusse sono utili per capire come questi concetti moderni siano collegati gli uni con gli altri. 

 

 

******************************************

 

 

La psichiatria darwiniana  e la funzione delle emozioni

 

Alfonso Troisi


Università di Roma Tor Vergata – Italia; e-mail: alfonso.troisi@uniroma2.it

 

Nella prospettiva darwiniana, la mente umana è un insieme di moduli funzionali emotivi e cognitivi che si sono evoluti per favorire l’adattamento dell’individuo all’ambiente. Ogni organismo vivente è una “macchina” costruita dall’evoluzione per il conseguimento di scopi biologici connessi con la sopravvivenza e la riproduzione. Negli animali dotati di un encefalo molto sviluppato, il conseguimento di questi scopi si attua anche grazie a delle funzioni psichiche che nella nostra specie raggiungono il livello più alto di complessità. Meccanismi neurobiologici, processi mentali e schemi comportamentali si integrano in sistemi funzionali deputati alla risoluzione di problemi specifici rilevanti per l’adattamento biologico. In questo modello della mente e del comportamento, le emozioni servono almeno tre differenti funzioni adattative. Una funzione è quella di attivare dei comportamenti idonei a fronteggiare la situazione in cui l’individuo si viene a trovare. Questa ipotesi funzionale, che attribuisce quindi un ruolo motivazionale alle emozioni, è di immediata comprensione grazie all’apparente concordanza con la nostra esperienza soggettiva e con l’osservazione del comportamento animale ed umano. Una seconda funzione è quella comunicativa. Le emozioni determinano cambiamenti fisiologici e comportamentali che sono in parte percepibili e decodificabili da individui della stessa specie. Anche nell’uomo, nonostante l’evoluzione del linguaggio, la comunicazione non verbale gioca un ruolo centrale nella regolazione delle interazioni sociali. La terza funzione, forse quella più rilevante per la comprensione dei disturbi mentali, è quella auto-informativa. Ogni specifica situazione che abbia una qualche rilevanza per l’adattamento biologico suscita una risposta emotiva. Attraverso l’emozione l’individuo è in grado di valutare la “qualità” della situazione stessa. Nelle situazioni positive l’individuo risponde con emozioni piacevoli, in quelle negative con emozioni spiacevoli. La capacità di provare emozioni piacevoli non si è evoluta come fine in sé ma piuttosto come segnale interno per informare l’individuo della qualità biologicamente positiva della propria condotta e delle circostanze ambientali. Analogamente, il dolore mentale si è evoluto per salvaguardare la sicurezza biologica e in determinate circostanze il suo ruolo adattativo è essenziale anche se questo si traduce in un livello di sofferenza individuale particolarmente gravoso. Il modello darwiniano del significato funzionali delle emozioni è utile per interpretare in modo nuovo ed originale la patogenesi di sintomi affettivi comuni a molte differenti sindromi psichiatriche quali la depressione, le fobie, i disturbi di personalità e le disfunzioni sessuali.

 

 

******************************************

 

Dalle intuizioni di Darwin sulle espressioni facciali alla nostra ricerca sui cebi

 

Elisabetta Visalberghi1 e Arianna De Marco2

 

(1) Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione, CNR, Roma - Italia; e-mail: elisabetta.visalberghi@istc.cnr.it

 

(2) Parco Faunistico Piano dell’Abatino, Rieti – Italia

 

 

In “L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali” (1872) Charles Darwin descrive le espressioni facciali di molte specie, inclusi animali domestici, da cortile e primati non-umani. L’interpretazione di Darwin sul significato delle espressioni facciali di scimmie ed antropomorfe non è sempre corretta, presumibilmente perché egli non poteva affidarsi ad osservazioni sistematiche d’individui appartenenti a gruppi sociali. Da allora si conosce molto di più sul comportamento sociale dei primati non-umani e sono stati sviluppati nuovi approcci metodologici sullo studio delle espressioni facciali. Sebbene Darwin stesso (1872) descriveva alcune espressioni facciali dei cebi, fino ad oggi gli studi sistematici su questo genere di Primati sud-americani erano piuttosto rari. Inoltre, nessuna ricerca aveva ancora comparato la comunicazione visiva all’interno del genere Cebus, nonostante la grande variabilità socio-morfologica tra le otto specie di Cebus e la loro ampia distribuzione geografica suggeriscano che potrebbero esistere alcune variazioni morfologiche e funzionali delle espressioni facciali. Quindi, abbiamo condotto studi sistematici con lo scopo (1) di descrivere le espressioni facciali del cebo dai cornetti e del cebo cappuccino (rispettivamente, Cebus apella e Cebus capucinus), (2) di esaminarne la distribuzione in funzione di rango, sesso ed età d’emittente e ricevente, (3), d’indagarne l’ontogenesi e la funzione comunicativa (Visalberghi et al, 2006; De Marco & Visalberghi 2007; De Marco et al., 2008). Sebbene entrambe le specie mostrino il relaxed open-mouth, l’open-mouth silent bared-teeth, il lip-smacking, il silent bared-teeth e l’open-mouth threat-face ci sono alcune differenze per quel che riguarda l’espressione del lip-smacking e del silent bared-teeth (emessi in una forma meno accentuata in C. capucinus piuttosto che in C. apella), e l’open-mouth threat-face (che ha una durata media più lunga in C. capucinus piuttosto che in C. apella). Inoltre, lo scalp-lifting, ossia la retrazione della pelle dello scalpo, la più comune espressione facciale che caratterizza il corteggiamento delle femmine di C. apella, non è mai stato osservato in C. capucinus. Nel genere Macaca molti studi hanno mostrato che esiste una co-variazione tra la funzione comunicativa di alcune espressioni facciali e il tipo di dominanza delle specie (Thierry, 2000); per esempio, il sorriso può segnalare sottomissione od affiliazione secondo il gradiente di dominanza delle specie. I nostri risultati confermano questa co-variazione nel genere Cebus e mostrano che il cebo cappuccino (il cui tipo di dominanza è più tollerante) usa la maggior parte delle espressioni facciali in un contesto affiliativo e/o di gioco; solamente l’open-mouth threat-face è associata a comportamenti aggressivi dell’emittente. Inoltre, nel cebo cappuccino sembrerebbero non essere presenti segnali ritualizzati di sottomissione. Il silent bared-teeth, che nel cebo dai cornetti può indicare sia sottomissione sia affiliazione, è poco usato nel cebo cappuccino e, quando emesso, veicola un messaggio positivo.

 

 

******************************************

 

 

Emozioni fra medicina e biologia evolutiva: breve resoconto storico dei casi della collera e della rabbia

 

Fabio Zampieri

 

Université de Genève, Institut d'Histoire de la Médecine et de la Santé.; e-mail: fabiozampieri@hotmail.com

 

 

 

Le emozioni sono state al centro della riflessione medica sull’uomo sin dal principio della cultura Europea. La teoria più complessa delle emozioni fu elaborata all’interno del sistema dei quattro Temperamenti, a sua volta basato sull’umoralismo, nel quale si trova il Temperamento Collerico strettamente legato alle emozioni della collera e della rabbia. Tale sistema è resistito quasi inalterato nella scienza medica da Ippocrate (400 a C.) fino al XVIII secolo. Nel corso di quest’ultimo secolo non poté resistere allo sviluppo dell’anatomia patologica che causò l’eclissi dell’umoralismo, ma fu rielaborato nel sistema anatomico dei Temperamenti. Qui troviamo il Temperamento Bilioso caratterizzato dalle emozioni della collera e della rabbia.

In seguito alla nascita del Darwinismo, in medicina si propose un nuovo sistema di Temperamenti focalizzato sul concetto di Costituzione Biologica (1880-1940). Psichiatri, psicologi, cilici e fisiologi contribuirono a una nuova definizione di rabbia e collera in riferimento ad alcuni concetti Darwiniani. La rabbia fu studiata in relazione alle sue funzioni biologiche.

Oggi, le emozioni sono studiate in termini evolutivi dalla medicina Darwiniana e dalla Psichiatria Darwiniana. Questo approccio può rappresentare una possibile struttura per l’unificazione degli approcci contemporanei che continuano a trattare separatamente la rabbia da punti di vista di volta in volta psicologici, psichiatrici, fisiologici e neurologici.

 

 

 

 

 

HOME

PROGRAMMA

ABSTRACTS

COMITATI

SPONSORS

INFO